Disabilità, Psicologia della vita quotidiana

Che cos’è la normalità?

In fondo all’articolo è possibile ascoltare l’audio-lettura.

Mi capita spesso di riflettere sulla definizione di “normalità” e cerco di mettere in relazione questo concetto con quello di “disabilità: “Che cos’è normale? Che cos’è disabile?”.

Per rispondermi a queste domande ho cercato le definizioni: nell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) la parola “disabilità” viene intesa come “termine ombrello per menomazioni, limitazioni dell’attività e restrizioni della partecipazione”.

D’altra parte cercare la definizione di normalità è stato più complesso e in questo mi sono stati d’aiuto gli anni all’università e i corsi di statistica. Convenzionalmente le variabili studiate si distribuiscono secondo una distribuzione gaussiana (per semplificare: a montagna ripida) dove al centro, in corrispondenza della cima della montagna, è distribuita la “normalità” in cui rientrano la maggior parte dei casi e poi procedendo dal centro verso destra o verso sinistra si incontrano i casi limite, sia in eccesso sia in difetto. Quindi per “normalità” si intende qualcosa che caratterizza la maggior parte dei soggetti/casi presi in considerazione.

Queste definizioni però le ho trovate insoddisfacenti, seppur non le ritenga sbagliate.

Ho trovato d’aiuto le affermazioni sul sito di Dario Ianes, docente dell’Università di Bolzano.

Lui afferma: “L’espressione “disabilità” sottolinea il deficit, ciò che manca rispetto a un’”abilità”, rispetto ad un’idea di normalità, alla “norma”. Rispetto a uno standard medio di funzionamento si evidenzia, in negativo, la disabilità. Una persona fa male qualcosa, o non la sa fare affatto: non ci vede, non parla, cammina male, ragiona lentamente, ecc., rispetto all’idea di “normalità“. Ma quale? Esiste una normalità, una persona “normale”?”.

Poi Ianes riprende il libro “Nati due volte” di Pontiggia: “La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo.
Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma.” (pp. 41 42).

Poi il docente prosegue: “Si potrebbe dire che proprio riconoscendo ed enfatizzando le differenze, tutte le varie differenze, si modifica l’immagine della norma. La normalità diventa pluralità di differenze, non uniformità fissa, definita attraverso standard, medie e misurazioni statistiche. […]

Dunque il confronto con la normalità si fa difficile. La normalità si frammenta in una pluralità di modi di agire, di pensare, di “funzionare”, di raggiungere obiettivi. Naturalmente non tutti gli obiettivi sono uguali in termini di correttezza etica o di efficienza: ce ne sono di sbagliati, come ci sono modi inefficienti.
Ma è soltanto dal riconoscimento e valorizzazione della pluralità dei modi di agire che nasce l’idea di utilizzare il termine “diversabilità”? Non solo, nasce anche dal non permettere al deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità.”

Queste parole mi hanno fatto giungere alla conclusione che la complessità dell’essere umano non può essere ricondotta ad una definizione statistica di normalità, perché questa prevede uno studio di singole variabili (colore degli occhi, forma del naso, lunghezza del collo) che perderebbe la visione del tutto, dell’essenza umana. Pertanto, ciascun essere umano ha minimo una caratteristica che lo fa sentire distante dalla media, dalla normalità. Ma che fine fanno tutte le altre caratteristiche che lo fanno sentire normale, nella media?

Al contrario, per ogni caratteristica che si prende in considerazione ci saranno individui che definiranno la media, la normalità, e altri che andranno a definire i casi limite. Pertanto, se le differenze sono inevitabili e fanno parte dell’essere umano perché ci soffermiamo su di esse? Perché inseguiamo il mito della normalità quando non c’è nessuno che risulta essere in media/normale per tutte le caratteristiche che si potrebbero prendere in considerazione?

Non ho le risposte a queste domande, ma ritengo che la “normalità” sia solo un mito che gli uomini si ostinano a inseguire. Inoltre, credo che sia più opportuno tenere a mente le parole di Dario Ianes e dare al concento di “normalità” una nuova definizione più vicina all’idea di pluralità di modi di agire, di pensare, di “funzionare”, di raggiungere obiettivi, o più semplicemente di essere.

Dott.ssa Samantha